Sono ricaduto nel vizio portoghese

Sono ricaduto nel vizio portoghese

Febbraio 12, 2024 2 Di ilviaggiatorecritico

La gioia di vivere dei portoghesi non ha limiti. Un bar di Viana do Castelo per passare notti indimenticabili.

Avevo detto di non farlo più ed invece ci sono ricascato. Avevo pensato che non ci sarei mai più andato, ma poi un acuto senso di nostalgia ed un desiderio malinconico mi hanno colto e son dovuto tornarci. D’inverno, sotto Natale ed a nord che è un po’ triste anche d’estate, con tutto quel mare e quel vento che non conoscono mai la calda luce del Mediterraneo, ma solo quella fredda e limpidissima dell’Atlantico, una sorta di sole al led.

Dopo mille post gonfi di piena e gaia passione, l’amore era finito ed un’ultima analisi piena di amarezza e ricca di cattiveria aveva, ne ero convinto, chiuso ogni mio rapporto con il Portogallo e con i suoi abitanti.

Ma, con il tempo, mi son detto che forse avevo esagerato, come succede non infrequentemente al Viaggiatore a volte troppo Critico; si era sentito forse anche un po’ in colpa e quindi ha deciso di andare a vedere se qualcosa si poteva salvare. No, è andata ancora peggio di come era finita anni prima.

Il solito volo Ryanair stracciato e scomodissimo per gli orari, mi fa atterrare a Porto; prendo una macchina a noleggio a vilissimo prezzo (ma con la trappolona, come si vedrà) e mi dirigo a nord; mi fermo a Viana do Castelo che avevo dimenticato di conoscere benissimo. Mi ci ritrovo facilmente e vado nel mio ristorante preferito. Una sorta di trattoria popolare con antiche ex velleità di eleganza. Come sempre la polverosa decadenza kitsch del Portogallo permea l’atmosfera. Chiedo il vino meno ricercato che ci sia; il vinho verde, quello giovane, fresco, frizzante ed un po’ dolciastro. Da ragazzi andavamo pazzi per il Mateus bianco o rosé, l’unico che arrivava in Italia, nelle classiche bottiglie rotondeggianti. Il vinho verde può essere bianco, rosé o rosso; io preferisco il più dozzinale fra i tre, pur essendolo tutti: il vinho verde branco. E mi ci fiondo, in questa voluptas della banalità lusitana che mi umilia e mi umanizza; non più Viaggiatore Critico, ma pellegrino alla ricerca del calore di un bicchiere di vino da poco. Poi il cibo, sempre molto modesto, ad eccezione del sublime baccalà; ma non di solo baccalà può vivere l’uomo. Ed allora infilo nel tubo gastrointestinale patate lesse scondite, insalate poco sgrondate, gasteropodi bruciacchiati ed insapori, dalla consistenza plasticacea. Ma porzioni grandi, vassoi di servizio ricolmi, vistosi; che il popolo non abbia fame!

Ma volevo andare nella per me finora sconosciuta Valle del Douro, il gran fiume portoghese che nasce in Spagna e lo attraversa da lato a lato.  Un fenomeno curioso: il fiume non è enorme, ma ha scavato un profondo fossato nell’altopiano, creando due erti versanti serpeggianti, da un lato e dall’altro. Lo stesso, in piccolo, lo hanno fatto alcuni affluenti. Abbiamo quindi un complesso di colline molto mosse ed assai ripide. In questa sorte di corridoio sinuoso non soffia il vento che spazza tutto il Portogallo, raffrescandolo; vi si crea quindi un microclima che ricorda il Mediterraneo e ci si produce dell’eccellente vino. I versanti del Douro sono tappezzati di scoscese vigne. Tradizionalmente il mosto andava, per via fluviale, fino a Porto dove diventava l’omonimo vino maderizzato che si beveva in ogni buon salotto londinese, versato dalle bottiglie di cristallo scolpito. Il Porto si fa ancora, ma i vini “normali” sono diventati molto più importanti e conosciutissimi nel mondo. Mi aspettavo quindi di aggirarmi in una sorta di Chianti, che io non amo molto per la sua leziosaggine stucchevole, ma che presenta indubbiamente delle piacevolezze per il bighellone in cerca di accoglienti cantucci dove farsi spennare per un paio di bicchieri di vino in degustazione e due fette due di salami venduto prima che sia veramente maturo per venire incontro ai gusti (?) dei tedeschi in materia di insaccati.

Delusione: strade molto strette e tortuose, difficili da guidare, ok. Ma maltenute, piene di cantieri abbandonati. Ma soprattutto, la valle del Douro che ho visto è priva di ridenti borghi di felici vignaiuoli in attesa del turista. Niente o poche cantine da visitare, comunque chiuse al mio passaggio, nessun ristorante tipico, nessun edificio caratteristico e carico di storia. Un posto che trasuda povertà e tristezza. Unica notevole eccezione, la linea ferroviaria che costeggia il fiume con le sue vecchie stazioncine ed i depositi da cui partivano, verso Porto, le botti impilate con perizia sulle navicelle. Ma è troppo poco. Ho inquisito ed ho capito. Nel Chianti il tessuto produttivo è fatto da una miriade di piccoli produttori che si fanno in quattro per rendere attrattiva la loro azienda, allo scopo di attirare i turisti e vendergli direttamente le loro bottiglie; molti li accolgono anche per la notte od il pranzo, aumentando le entrate dell’azienda. Nella valle del Douro, invece, non vi sono che grandi proprietà solo tese al profitto derivato dalla vendita internazionale del vino e del tutto indifferenti allo sviluppo del territorio. Multinazionali avvoltoi, agricoltura estrattiva che non lascia niente sul posto; operai stranieri che fanno la stagione e se ne vanno. Riservo l’ultima speranza al museo del Douro, sito in pregevole edificio della poco interessante città di  Peso da Regua. Ed invece mi incattivisco ancor di più: l’ennesima patacca fatta a sperpero di soldi europei. Poche informazioni, ma, soprattutto, pessima illuminazione, lettere piccole e bianche sul fondo di legni chiaro, cartellini con carattere 10 a due metri di distanza. Il Viaggiatore Critico è miope, è vero, ma non sono forse decenni che si rimuovono le barriere architettoniche? Forse gli zoppi hanno più diritti dei miopi? Lascio la valle del Douro, dicendomi che forse avrei dovuto fare il percorso con il trenino che corre sulla riva del fiume, partendo da Porto ed arrivando quasi in Spagna. Avrò voglio di tornare? Penso di no.

Unica gradevolissima sorpresa: l’albergo nell’ex convento di Nossa Senhora do Carmo a Frexinho, delizioso e con un bellissimo buffet nella chiesa; il tavolo dei dolci al posto dell’altare, che il Tiramisù sia con voi.

La fredda luce dell’Oceano; una grande emozione, in effetti.

Continuo il mio viaggio verso nord, quasi al confine con la Galizia spagnola. C’è il solicino e mi riscaldo seduto ai tavolini esterni di barucci tristi con avventori brutti. Ad un bar siedo accanto ad un vecchietto che costruisce nasse per le aragoste: gli do mano, in un compito molto semplice che anche io so fare. Tutta plastica che finirà in mare. Mi ritrovo in tasca un paio di biglietti da 100 euro che nessuno mi vuole cambiare, timorosi di che? E mi imbatto di nuovo nella scontrosità dei portoghesi del nord, la mancanza di empatia e di sorriso, la piccolezza di spirito e la meschineria di chi non apre la mano per paura che gli cada il soldino che conserva nel pugno; stretto anche il buchino del culino perché io non mi mescolo con nessuno! Nel mio ultimo post questo comportamento lo definivo pisserità: la ritrovo ancora più forte di prima; oppure sono io diventato più insofferente, allergico alle pochezze del perbenismo acido.

Poi la settimana se ne va, restituisco la macchina a cui trovano un graffietto di 8 centimetri sul parafango che mi fatturano lo sproposito di 283 euro. Questi vivono di riparazioni (non effettuate) piuttosto che di noleggio. Fortunatamente avevo l’assicurazione che mi rimborsa in 24 ore.

Passo l’ultima notte nel solito albergo di Povoa de Varzim, non vado sulla spiaggia dell’oceano, non vado a Porto. Stordisco la mia tristezza sciapa con svariate Francesinhas, il piatto più mappazzone del mondo.

Vediamo se questa volta è proprio l’ultima.