
Vivere a Tokyo
Marco Bi, un lettore del blog, ci manda questo interessantissimo articolo sul vivere a Tokyo, lasciandoci con la voglia di saperne di più. (qui e qui)

Foto dell’autore.
Il Giappone si è aperto al mondo nella seconda metà del 1800 in concomitanza con la restaurazione Meiji: fino ad allora, il paese insulare era rimasto al riparo da quasi ogni influenza che provenisse dal di fuori dei patri confini. Ciò significa che culturalmente, l’arcipelago – che rimane tutt’ora ampiamente omogeneo nella composizione della società – ha potuto proteggere la sua cultura intatta fino a relativamente poco tempo fa, rimanendo in una sorta di “medioevo” prolungato.
Non sorprende quindi che, ancora nel 2020, il Giappone conservi tratti unici, antichi, quasi mitologici, che agli occhi di un occidentale sono senza dubbio misteriosi. Come paragone basti pensare che lo sviluppo della civiltà, scienze, economia, ecc. registrato in Europa dalla fine del medioevo ai giorni nostri ha impiegato circa 600 anni per arrivare al livello attuale, mentre in Giappone lo stesso è avvenuto con il turbo: in 150 anni si son concentrati un’esplosione culturale, di conoscenza e di crescita economica a rotta di collo.
Con queste premesse, il Giappone, e Tokyo in particolare, regala contrasti e differenze culturali marcate: nella capitale non sorprende trovare edifici in acciaio scintillante da 50 piani accanto a piccoli tempi scintoisti in legno che odora di muffa.
Il rumore dei megaschermi sui grattacieli, sopra folle ordinate, formate da migliaia e migliaia di persone che ogni minuto attraversano improbabili passaggi pedonali obliqui nel caotico quartiere di Shinjuku, contrastano con la calma della “città bassa” (shitamachi 下町), dove canuti ultraottantenni si trascinano soli e ricurvi al più vicino supermercato per acquistare la cena serale.
Vivere a Tokyo vuol dire abitare in una città frenetica, ma pulita, sicura e gentile: le persone sono abituate a trattare con rispetto il prossimo ed il senso civico è da 10 e lode. L’interesse della comunità viene prima di quello individuale. Se ci si perde e si chiede aiuto, il passante, nonostante i problemi linguistici, si farà in quattro per aiutarci; negli esercizi commerciali, il cliente è il re. Si viene trattati con i guanti bianchi (letteralmente) sui taxi, alla stregua del servizio riservato ai clienti di Bulgari in Montenapoleone – è il così detto omotenashi (おもてなし l’ospitalità giapponese).

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I mezzi pubblici non sono a buon mercato (ma sicuramente meno costosi che a Londra), però impeccabili, efficienti, capillari, puliti ed affidabili. Le ragazze si addormentano con la borsetta aperta sul treno che, alle undici di sera, le riporta a casa, serene che nessuno la deruberà. Si gira tranquillamente di notte, ovunque, senza mai sentirsi minimamente in pericolo. Questo permette di smorzare la pesantezza dei ritmi incalzanti, gli orari estenuanti in ufficio, le perenni code per entrare nei musei o negozi/ristoranti migliori, tipico degli ampi conglomerati urbani.
La capitale è una città benestante (ca. un terzo del PIL nipponico), dove si riversa la poca gioventù di un paese in forte declino demografico e con una percentuale di persone sopra i 65 anni che arriva al 30%. Tokio è l’unica città che continua a crescere come numero di abitanti.
Molti vengono a vivere a Tokyo per cercarvi fortuna e così, nelle frequenti (ma come in tutte le grandi città) piuttosto superficiali occasioni di incontro, è difficile trovare qualcuno che sia nato e cresciuto a Tokyo: sono quasi tutti arrivati qui per o dopo l’università.
Nonostante i più di 38 milioni di abitanti, gli stranieri sono ancora relativamente pochi e fino a 10 anni fa, incrociarne qualcuno per strada era un piccolo evento; negli ultimi 4-5 anni, sono aumentati di molto gli immigrati cinesi, vietnamiti, nepalesi, ecc. in cerca della fortuna economica. Le politiche sull’immigrazione son state lungamente focalizzate sulla manodopera qualificata e solo nell’aprile 2019 si è deciso di aprire ai “semplici” lavoratori.
Tokyo, con l’hinterland, è mediamente cara: i metri quadri si pagano a peso d’oro (38 milioni di persone in una superficie che è metà di quella di Roma e provincia), ma mangiare fuori non è proibitivo e l’ampia scelta varia dai menù fissi a €5, ai ristoranti 3 stelle Michelin (Tokyo ne vanta più di Parigi e NY). Tant’è vero che c’è chi sceglie di mangiare sempre fuori casa senza spendere tanto di più della spesa al supermercato.
I giapponesi amano mangiare di tutto un po’: numerose pietanze, in piccola quantità, condivise coi commensali, Applicano questo criterio anche alle cucine non asiatiche (es. condividere un piatto di pasta è la norma).
La cucina giapponese merita un capitolo a parte, ma a Tokyo la scelta di ristoranti è da far venire l’imbarazzo: giapponese, cinese, coreano, vietnamita, russo, kazako (!), tedesco, ecc. ai più diffusi francese ed italiano. Quest’ultimo sta vivendo un periodo di splendore: se ne trovano ad ogni angolo.
La qualità è alta o medio-alta: difficilmente si andrà via delusi o convinti di esser stati derubati.

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La lingua è punto ostico: dal boom del turismo partito ca. 5-6 anni fa ci son stati molti progressi, ma l’inglese è perlopiù relegato alla segnaletica, ai menù dei ristoranti, a ciò che è scritto. Pochissime son le persone che lo parlano; per non vivere nella bolla della Tokyo degli expat, imparare il giapponese è fondamentale.
La grammatica è complessa e non ha nulla a che vedere con le lingue europee, gli ideogrammi sono affascinanti, ma per la vita di tutti i giorni ne servono almeno 2.000. La pronuncia è invece facile, perché simile a quella italiana. Per masticare le basi, servono almeno 300h di studio: non propriamente come studiare lo spagnolo.
I rapporti personali sono un altro capitolo difficoltoso: la cultura è diversissima da quella italiana, i valori pure. L’individualismo è ridotto ai minimi termini, parlare in maniera franca è quasi inesistente: il vero pensiero va intuito, letto tra le righe. Per evitare di offendere il prossimo, si evitano accuratamente argomenti in cui le idee personali siano fondamentali (la politica, ad esempio).
Sovente ci sposa perché c’è pressione da parte della società, non per amore: le donne dopo i 30 anni temono di esser “troppo vecchie” per piazzarsi sul mercato e gli uomini se la giocano con il nome dell’azienda che li impiega, non con le loro qualità personali.
Non sorprende che la maggior parte delle coppie dopo meno di dieci anni siano in rotta: si divorzia con una firmetta o si preferisce tradire. Il tutto fatto senza umiliare il partner, ma senza eccessivi sforzi per nascondere la tresca: il “don’t ask, don’t tell” è il collante di matrimoni già da tempo esistenti solo sulla carta.
Vivere a Tokyo offre innumerevoli scelte, presentate in modo squisito, luccicante e con una tranquillità di spirito sullo sfondo: un’esperienza onirica vissuta nel quotidiano, a patto di non andare troppo in profondità, perché allora lì, il prezzo da pagare è una cultura agli antipodi ed una lingua non facile. Roba per veri appassionati.