Quebec

Quebec

Giugno 26, 2017 2 Di ilviaggiatorecritico

Cosa è il Quebec?

Francesi che abitano in America? Americani che parlano il francese? Una minoranza frncofona schiacciata dalla maggioranza anglofona? Il retrobottega di New York, dove andar a far casino il fine settimana? I discendenti di soldati sfortunati e orfane salvate dalla carità del Re di Francia, sfuggite e nemmeno troppo al marciapiede? Una bizzarria storico-geografica che causa infiniti problemi di identità e di insicurezza? E gli indiani, in tutto ciò, che fanno?

Il Quebec e i suoi abitanti sono tutto ciò (ed, evidentemente, molto altro) e quindi meritano una visita attenta ed incuriosita. Cosa che il Viaggiatore Critico non poteva esimersi dal fare, alcuni anni fa.

Le straordinarie dimensioni del manicomio di Quebec City. (JOFphoto via Wikimedia Commons)

Di quel viaggio, un ricordo, fra i molti, sovrasta gli altri.  Tornando a piedi verso il mio albergo di Quebec City costeggiavo tutti i giorni un enorme, incombente, tetro edificio degli inizi del ‘900. Mi pareva tristissimo e mi si stringeva il cuore  ogni volta che ci passavo sotto. Poi, finalmente, mosso dalla curiosità, chiesi cosa fosse stato. Era il vecchio manicomio! Le dimensioni dell’ edificio (in foto) danno l’idea delle dimensioni dei problemi mentali dei vecchi Quebecois. Legioni di folli, squinternati, povere persone lì relegate.

E mi (dis)piace pensare che tutti questi problemi mentali fossero dovuti alla difficile situazione in cui questo popolo si trovava a quei tempi e, almeno parzialmente, si trova ancora.
Immersi in una marea anglofila che li guarda con sufficenza e disprezzo, i Quebecois hanno i loro primi antenati nei cacciatori di pellicce che si avventuravano nelle brumose foreste del nord del Quebec; o da torme di militari che il Re di Parigi mandava in quella provincia per difenderla dagli egemoni inglesi. Per una strana tradizione, i militari perdevano il loro cognome e, in sua vece, acquisivano il soprannome che gli era dato dai commilitoni, spesso ridicolo o svilente. Quindi perdita di identita’ e di ogni possibilita’ per i discendenti di ritrovare le radici francesi. Per loro la possibilita’ di tornare a casa, dopo la fine della ferma, era remota. Avrebbero dovuto pagarsi il viaggio di ritorno a loro spese. Come racimolare in quella asfittica economia di colonia embrionaria tanti soldi? Mi chiedo perchè ci andassero: sapevano che ci sarebbero dovuti rimanere? Erano assolutamente disperati in Francia e qualsiasi alternativa era meglio? Erano arruolati/imbarcati a forza o con l’inganno? Comunque fosse stato, erano poveri disgraziati, soffiati via dal vento della storia.
Per tenerli buoni il Re mandava navi e navi di ragazze orfane recuperate ed allevate negli Istituti pubblici preposti allo scopo, per evitare che finissero nella prostituzione. Erano chiamate “Les filles du Roi“. Alla coppia appena formata veniva concesso del terreno che consisteva spesso in una stretta ma lunga fetta di terra che si affacciava, per uno dei lati corti, sull’immenso fiume San Lorenzo. Era essenziale che il lotto avesse accesso al fiume, in quanto questo, per molto tempo, fu la unica via di comunicazione. Quindi chi percorreva la riva del fiume avrebbe attraversato innumerevoli proprietà diverse, una ogni poche decine di metri; ma che si  estendevano per centinaia di metri verso l’interno. Le coppie vivevano bene, l’agricoltura era generosa: erano comunità autosufficenti e ben provviste. Le condizioni di vita erano buone, si trattava di una economia di sussitenza, senza la capacità di accumulare capitali da investire o da utilizzare per tornare in Francia.
La vita di questi coloni era cos’ piacevole e pacifica che il Governo della Colonia aveva mille difficoltà per trovare sul luogo dei dipendenti. Gli abitanti preferivano vivere di ciò che le loro mani producevano piuttosto che sottomettersi agli ordini dei boriosi funzionari francesi venuti dalla madre patria.  Gli abitanti, per rifornirsi di un pò di monete per acquistare dei beni di importazione, facevano delle battute di caccia e tornavano con le pregiatissime pellicce che erano facilmente vendute. Quei primi coloni finirono quindi per isolarsi completamente, e ciò per molte generazioni. Il loro francese si trasformò in quella lingua curiosissima che è oggi.
Grazie alla loro vita pacifica e ritirata, fra di loro, divennero amichevoli, gentili, accoglienti e socievoli; in una parola: alla mano. Ma rigidi e diffidenti nei confronti dell’esterno e delle sue novità.  Molto attaccati alle loro regolette e sempre un po’ preoccupati del giudizio altrui. Provinciali, insomma. I discendenti attuali di quella gente sono ancora così. Diffidenti ma di gentilezza deliziosa, che il viaggiatore apprezzera’ ad ogni momento.
Il gigante statunitense è proprio lì e li schiaccia. Il fine settimana Montreal si riempe di ragazzi americani maleducati che comprano alcool di tutti i tipi e si aggirano in città urlando e facendo casino come se fosse tutta roba loro. Molti degli introiti del Quebec vengono dall’energia elettrica prodotta dalle grandi dighe del nord e venduta alla città di New York. I Qubecois ci vanno anche a lavorare negli Stati Uniti e ne tornano impressionati ed un pò annichiliti.

L’altra immagine forte del mio viaggio è la risata degli indiani. Qua e là vi sono delle riserve indiane dove nessuno altro vi può possedere cose o svolgere attività. A volte la riserva è rappresentata da un quartiere della città; altre volte sono grandi distese di foresta, a volte difficilmente raggiungibili. Le riserve cittadine che ho visto sono zone povere, trasandate, con i bambini che giocano per strada. Poco meglio dei campi Rom italiani. Eppure gli indiani ridono: forte, spesso, tutti, con gran gusto. Uno di loro fa una cosa e tutti ridono; un altro dice una frase e tutti ridono ancora e così passano la giornata. Ho visto un omone enorme che sudava a ruscelli e tutti ridevano; lui imprecava per il caldo (asfissiante per davvero) e gli altri che si sbattevano dalle risate. Ho letto che è un tratto caratteristico della loro cultura; una vera e propria manifestazione del loro essere. I quebecois non-indiani presenti fanno finta di niente, fra l’abitudine ed un filo di fastidio.

Non importa dire che la distanza umana fra l’enorme manicomio dei bianchi di Quebec City e le grasse risate degli indiani delle riserve è talmente mastodontica da aprire infiniti spazi di riflessione sulla società quebecoise.