Un cantuccio incantato

Un cantuccio incantato

Febbraio 9, 2017 0 Di ilviaggiatorecritico
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Una chiesa dall’aspetto nordico e il suo cimitero con le tombe dai cognomi da schiavi. Le affascinanti contraddizioni di un luogo strano.

Nonostante tutto il male che ho detto della Guadalupa e della Martinica,  ho trovato assolutamente delizioso un angolo di quest’ultima isola .  Mi ha incantato e non ho voglia di andarmene.

Mi e’ gia successo altre volte: a Corvo,  a Kassos,  nel sud del Cile. Sono luoghi alla fine della strada,  di un isola,  del mondo.  Oltre non si puo’ andare e l’animo mio irrequieto vi trova pace. Da qui è impossibile “andare un pò più in là”; bisogna per forza di cose tornare indietro. E quindi mi rassegno e pur di non tornare indietro, mi ci accomodo.

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Un luogo umido.

Qua siamo a Grand’Riviere,  l’ultimo paese del nord della Martinica.  La strada, minima e tortuosissima vi arriva esausta e si spegne.  Solo scoscesi sentieri permettono di proseguire verso l’altro lato del vulcano che sovrasta il paesino e tutto il nord di questa brutta isola. E’ lo stesso vulcano della Pelée che esplose nel 1902 distruggendo la cittadina di Saint Pierre ed i suoi 30.000 abitanti.

Il paesino di Grand’Riviere si stende su un minuscolo pianoro costruito dal fiume, stretto fra l’Oceano procelloso e le ripidissime pendici del vulcano completamente ricoperte da una vegetazione di sfacciata prorompenza: lussoriosa e lussuosa. Perennemente umida.

Il paese e’ francamente brutto,  composto da casette di muratura il cui intonaco e’ spesso annerito dall’umidita’ instancabile.  Vi piove, infatti, quotidianamente, per quanto brevemente; è quindi tutto verde e bagnato, ma il sole non manca.

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Da casa mia.

Una spiaggia di sabbia nerissima,  vulcanica si trova subito opo un bel porto, protetto da una enorme e poco giustificata diga foranea. Il porto ospita poche barchette di pescatori.

Gli abitanti sono neri o mulatti scuri discendenti degli schiavi che lavoravano in una piantagione di canna di cui si vedono ancora i resti dei fabbricati. Non sono razzisti: il sindaco è il più nero di loro, invece di essere, come capita normalmente, il più bianco.

Tali abitanti sono deliziosi.  Mi hanno adottato,  unico turista che dorme nel villaggio e che si aggira sfaccendato nelle due strade che lo compongono. Mi regalano il pesce appena pescato,  mi portano da mangiare gia’ fatto nell’appartamento che ho affittato, mi danno il loro pane quando l’unica bottega lo finisce,  mi offrono il rum.

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La spiaggiqa subito fuori dal porto.

Passo le giornate a nuotare nel porto,  a vedere i lavori per il suo dragaggio,  a parlare di filosofia con lo scemo del villaggio e di ricette di cucina con le vecchie. Polemizzo con la bottegaia su ogni argomento e mi arruffiano con i miei vicini sparlando dei francesi. Ho fatto amicizia con il padrone di uno dei bar e ci siamo messi d’accordo sul fatto che farò le pizze da lui una volta a settimana. Ma siccome siamo ai tropic, non comincerò proprio subito, un pò più in qua. Faccio la classifica dei migliori ponches al rum del villaggio, fino a decidere che il migliore è quello della vecchia davanti al piazzale delle palme. Non è nemmeno un bar: è casa sua, sta in una specie di basso. Quando apre la porta della cucina vuol dire che è in servizio. Ci si avvicina, ti da il bicchiere e ci si siede su delle sedie scompagnate fuori dalla porta. Lei intanto fa da mangiare, stira, chiacchera con le vicine.

Il ponche è la bevanda tipica delle isole francesi e non ha niente a che vedere con quello di Livorno. E’ rum, limone e zucchero; il segreto è indovinare le proporzioni.

Cammino sui ripidissimi sentieri alle spalle del paese dove trovo numerose capre.  Loro legate a brucare, io liberissimo. Osservo gli orti che gli abitanti anno ricavato su queste pendici che scoraggerebbero un alpinista. Eppure ci crescono delle belle verdurine: la terra, vulcanica, è fertilissima e la pioggia quotidiana risparmia la fatica dell’annaffiare. Tutto molto bucolico, ma allo stile tropicale.

Nessuna attività economica, salvo pochissima pesca e tre modestissimi ristoranti. Arivano infatti un certo numero di turisti francesi che soggiornano nella bolgia del resto dell’isola e si spingono a pranzo, con le loro tristi vetturette a noleggio, fino a Grand’Riviere, per poi ripartire sbito dopo e lasciarci alla nostra tranquillità tropicale.  Qualche ardimentoso arriva, invece, a piedi, dopo aver fatto il giro del vulcano sulla parte esterna, quella a nord. Camminata dura, non tanto per la lunghezza, quanto per le continue variazioni altimetriche, molto brusche e per la poca agevolezza dei sentieri, nella jungla.

Il fine settimana tornano in paese i lavoratori e gli studenti.  Dal lunedi, torneremo alla nostra pace.  Fatta di niente,  fatta di vita.